A tutta jam!

Tentare di spiegare l'originalità di una proposta che propongono ormai quasitutti quasiovunque, è impresa non da poco.

Come tutto ciò che la moda fagocita, anche le jam session manouche rischiano di venire a noia nel giro di breve.

E dunque, se non si vuole perderne senso e sapore, bisogna andare a ripescarne lo spirito più autentico e cercare di riportarlo in scena ogni volta, con modalità nuove e stimolanti.

Il termine “jam” probabilmente deriva da "Jamu", una parola Youruba (Africa occidentale) che significa "insieme in concerto": le jam sono da sempre il terreno fertile sul quale musicisti diversi s'incontrano, improvvisano, scambiano.
Ma non solo: l'incanto, quando si crea, coinvolge anche il pubblico, partecipe e protagonista di un'invenzione continua e stupefacente.

Il gipsy jazz, mescolando l'espressività dello swing con il filone musicale del valse musette francese ed il virtuosismo eclettico tzigano, si presta particolarmente bene a questo genere di improvvisazione osmotica.

E fortunatamente Django Reinhardt, il chitarrista zingaro che ne è considerato l'inventore e il massimo esponente, ha trovato molti degni eredi anche sulla scena musicale italiana, torinese nello specifico.
I musicisti manouche del Molo, da quelli che vi suonano con regolarità a quelli che vi passano ogni tanto, sono “zingari” dentro: portano in sé – oltre alle competenze musicali – lo spirito indomito e creativo di Django.

L'aria del Molo fa il resto: un'atmosfera avvolgente e un po' magica, che pare fatta apposta non per ascoltare la musica, ma per entrarci dentro a piedi scalzi, sognando.

 

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